In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Un uomo , partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
(Mt 25,14-30)
Il vangelo di Matteo, che è stato letto durante le celebrazioni del sacramento della Confermazione di sabato 12 e domenica 13 febbraio, riecheggia ancora nella mia mente non soltanto perché nell’ultimo periodo l’ho letto più volte ma perchè- ed è proprio vero– la parola di Dio è nuova ogni volta e ti parla in quel momento come mai ti ha parlato prima e come non potrà farlo in futuro.
Questa volta mi sono soffermato sull’idea di questo uomo che elargisce i propri beni secondo la capacità dei suoi servi che, per usare una metafora sportiva, è come dire: nel correre i cento metri uno parte dai blocchi di partenza, un altro parte 20 metri più avanti ed un altro ancora dopo 60 metri in funzione delle proprie decrescenti capacità (nello sport una gara di questo tipo non esiste: tutti partono dai blocchi di partenza partecipando all’interno della categoria associata alla propria data di nascita). Questa sbilanciata distribuzione della ricchezza appare una ingiustizia ma in realtà ciascuno di noi dona a chi vuole ciò che vuole.
Mio sono chiesto allora: cosa dice a me oggi questa parabola?
La prima figura che mi è venuta in mente è quella di Santiago che nel “Il vecchio ed il mare” di Hemingway, dovendo vedersela con gli squali a caccia del suo Marlin, dice a se stesso: «Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai.»
Questo pescatore, malgrado sia ormai avanti con gli anni, dopo 84 giorni senza aver pescato nulla, esce nuovamente in mare e pesca un pesce grandissimo. Senza cercare alibi o piangersi addosso, con tutto il coraggio che ha, protegge con ogni sforzo la sua preda dagli attacchi degli squali che, purtroppo, alla fine avranno la meglio lasciando del grande pesce soltanto la lisca.
Quante volte non facciamo altro che trovare scuse per giustificare i nostri fallimenti e sembra sempre che tutto quello che non otteniamo sia imputabile a qualche fattore esterno.
Ci comportiamo come quel servo che ha paura di perdere quello che ha perché è troppo poco per metterlo in gioco e lo nasconde e si nasconde in attesa del ritorno del padrone.
Allora ho capito che il più grande peccato che possiamo commettere è quello di non sentirci amati da Dio, di sentire di aver subito una ingiustizia perché non siamo abbastanza belli, intelligenti, simpatici, nascondendo tutto quello che di bello siamo, disconoscendo i “talenti” che ci sono stati donati o lamentandoci per la “parsimonia” che è stata usata nei nostri confronti.
La fine di questo servo al ritorno del suo padrone è nota a tutti e, per evitare di fare la stessa fine, forse è il caso che ci fermiamo a riflettere su quanto Dio ci ama per quello che siamo e che ci ha pensato così da sempre, fin dal grembo materno. Ci sta invitando a vivere pienamente la nostra vita, in qualsiasi momento ed in qualsiasi situazione, come un eterno ringraziamento e ci dice pure che ci sta sempre accanto, perché lo Spirito Santo può davvero farci essere persone speciali. Aprite le vostre vele, ragazzi, e lasciate che lo Spirito Santo ci soffi dentro e spinga la vostra barca più a largo possibile!