
È possibile credere nel tempo del coronavirus?
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“La nostra vita è breve e triste;
non c’è rimedio, quando l’uomo muore,
e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi;
Siamo nati per caso
E dopo saremo come se non fossimo mai stati
[…] Su godiamoci, i beni presenti…
Inebriamoci di vino squisito e di profumi,
non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera”
Questo frammento tratto dal secondo capitolo del libro della Sapienza scritto in greco all’incirca nella seconda metà del primo secolo a.C. è il più recente dei libri dell’Antico Testamento. L’autore è un ebreo che vive ad Alessandria e che si rivolge in primo luogo agli ebrei suoi compatrioti la cui fede è scossa dal prestigio della civiltà alessandrina: l’ottimo livello delle scuole filosofiche, lo sviluppo delle scienze, il richiamo delle religioni dei misteri. Vive, quindi, in un luogo rinomato e accetta la sfida di parlare del “suo” Dio che ama tutti gli uomini a partire da una constatazione (quella sopra riportata) che è di una veridicità che è stata ed è la “posizione esistenziale” di tanti uomini. Nello snodarsi della riflessione c’è un altro passo che sembra fissare i limiti del pensare umano:
“I ragionamenti dei mortali sono timidi
E incerte le nostre riflessioni,
perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima
e la tenda d’argilla grava la mente di molti pensieri.
A stento ci raffiguriamo le cose terrestri,
scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi può rintracciare le cose del cielo?”
E così dopo la prima “mazzata” ecco sopraggiungere la seconda. Il libro, dopo lo snodarsi in 19 capitoli, in cui non mancano le descrizioni di una vita caratterizzata da difficoltà, sofferenze, intervallate da sprazzi di felicità, si conclude così:
“In tutti i modi, o Signore, hai magnificato
e reso glorioso il tuo popolo
e non l’hai trascurato
Assistendolo in ogni tempo e in ogni luogo”
come se lo scrittore partendo da quello che è sotto gli occhi di tutti (la caducità e la durezza della vita) conferma la sua scelta di credere in un Dio che non abbandona. Ora, lui avrà avuto le sue buone ragioni, per arrivare a questa conclusione, ma non risolve in nessun modo ciò che c’è a monte della condizione umana: che bisogno c’era per un Dio Amore, di creare qualcuno a sua immagine e somiglianza, collocarlo nel tempo e acconsentire che il suo percorso abbia più le caratteristiche di una via crucis che il permanere in uno stato di beatitudine, simile alla sua? Non convince neanche più tanto l’idea di un uomo ed una donna che in nome della loro libertà decidono di allontanarsi da una condizione di pieno godimento per tentare la strada di sostituirsi al loro creatore.
C’è un peccato originario? Un Diabolos che intriga e tenta? Come mettiamo in relazione un universo che ha miliardi di anni, la comparsa dell’uomo molto più tardi (all’incirca 200 milioni di anni fa) e la nascita e lo sviluppo di una codificazione dell’esperienza religiosa in un corpus sistematico che ha appena 4000/5000 anni fa ed una religione, quella cristiana, che di anni ne ha “appena” 2000? Come mai il “Dio Creatore” che secondo alcuni teologi era così tanto impaziente nel rispecchiarsi in qualcuno fatto a “sua immagine e somiglianza” attende tutto questo tempo per decidersi e poi riparare a qualcosa che all’inizio (forse è blasfemo pensarlo e dirlo) non deve essergli riuscita bene? Al di là di quello che potrebbe sembrare una posizione irriguardosa ed irriverente, voglio soltanto segnalare che il pensiero dell’uomo e la sua parola, quando si tratta degli inizi, balbetta, sconta un limite invalicabile ed allora congettura, sperimenta, fa ipotesi, si serve della parola per raccontare, descrivere; si appella a tutta la sua creatività, il suo sapere e ogni volta che sembra aver scavalcato l’ultimo ostacolo, se ne ritrova subito davanti un altro. Per non parlare delle tristissime vicende di questi giorni: il mondo intero messo sotto scacco da un essere di dimensioni inferiori al milionesimo di metro che girovaga seminando morte, che sta facendo crollare certezze di ogni tipo, che “si muove” con una rapidità ed efficacia che inquieta. Ed allora qualcuno sa spiegare, senza precipitare nel pensare per “verità apodittiche” qual è il ruolo del Coronavirus nel piano della salvezza di un Dio che non abbandona i suoi figli? Lui – il virus – discendente all’altezza dei suoi antenati che stanno al mondo da qualche miliardo di anni? Abbiamo colpe da scontare anche nei suoi confronti?
E allora a questo punto, mi si potrebbe chiedere, qual è la tua risposta? Qualcosa che risolve poco perché negherebbe la coerenza di quanto sopra detto, ma che si aggiunge alle innumerevoli riflessioni che ciascuno di noi può fare sul senso del nostro passaggio temporaneo su questo pianeta, senza dover necessariamente finire sui libri di storia. Partiamo da qui: nessuno di noi ha chiesto di venire al mondo. Nel migliore dei casi siamo frutto di un desiderio potente dell’amore di chi c’ha messo al mondo. Anche noi al pari del virus (perdonate questa similitudine, anche se qualcosa in comune con lui ce l’abbiamo, crescendo) abbiamo un incipit infinitesimale. Trascorriamo un po’ di mesi dentro un utero e già dai primi istanti ci barcameniamo e impariamo a lottare per la vita (che la permanenza dentro quell’ambiente sia solo un Paradiso, ne dubito fortemente). Siamo in balia di una serie di situazioni, per uscire fuori abbiamo bisogno anche del consenso di chi ci ospita, altrimenti non se ne fa nulla. Una volta usciti, abbiamo bisogno come l’aria che chi ci accoglie, ci guarda con molto affetto, ci coccoli, si prenda cura di noi con delicatezza e rispetto. Continuiamo a pensare e ad esprimerci per lungo tempo attraverso il corpo e i suoi sensi, fino a quando riusciamo a conquistare la parola che non è una cosa scontata né automatica. Dobbiamo in certi momenti imporci all’attenzione dell’altro anche arrabbiandoci e nello stesso tempo con un surplus di comprensione perché, non sempre, per una serie di ragioni, comprende con immediatezza e a volte non comprende affatto. Siamo completamente inseriti nel tempo, soggetti ad una serie di processi di maturazione che per un lungo periodo non camminano tutti di pari passo. Cominciamo sin da subito a fantasticare a desiderare, non solo all’inizio, ma per tutta la vita e quello che desideriamo non si concretizza in tutto e per tutto. Siamo soggetti a frustrazioni, sconfitte, che ci auguriamo permangano dentro la soglia del sopportabile, altrimenti potremmo deciderci di farci fuori, anche in assenza della credenza di un Paradiso dopo la morte, perché sopportare l’inferno di un profonda depressione e liberarsene è già esso stesso un Paradiso.
Al pari del virus – ed ecco la similitudine – siamo mortiferi. Proviamo un grande piacere a demolire il nostro prossimo a partire da quello più prossimo. Siamo capaci di odiare con una determinazione feroce, di usare la parola come una clava e nello stesso tempo, se ben accompagnati durante la crescita, siamo capaci d’imparare l’Amore ed essere riconoscenti. Pensiamo, immaginiamo, costruiamo cose meravigliose, sbagliamo strada, cadiamo, ci rialziamo, riprendiamo il cammino e se le cose vanno nelle giusta direzione si può essere pervasi da un senso di gratitudine che, nonostante tutto, ci rende soddisfatti di come abbiamo vissuto. Vediamo Bellezza già a partire da noi stessi: ad esempio nel funzionamento del nostro corpo in cui gran parte delle funzioni fondamentali non dipendono dalla nostra volontà. E la cosa commovente e stupefacente che di questa bellezza ci parlano, dopo una lunga e faticosa conquista, anche coloro che soffrono di significative disfunzioni e disabilità. Di cosa c’è fuori di Bello è sotto gli occhi di tutti.
Questo c’è dato di sperimentare con i nostri sensi, di dare con il nostro pensare un senso a questa esperienza e già ritrovarsi in tanti in questo reciproco riconoscimento, non è cosa da poco. Vivere un’appartenenza religiosa è l’esito di diversi fattori che non sono definibili una volta per tutte e per tutti allo stesso modo. Chi ci sta dentro deve molto vigilare su se stesso ed in particolare sulla tentazione di fare proselitismo ed imporre le proprie verità come dogmi assoluti, e chi si trova fuori, non scivolare nel sarcasmo e nel disprezzo. Il nostro, fin dall’inizio, è un andare più o meno veloce verso la Morte su cui tutti ci interroghiamo, compreso l’autore del libro della Sapienza. Ogni cultura ha offerto le sue risposte; poco più di 2000 anni fa, un uomo definitosi figlio di Dio, ha detto e fatto cose straordinarie e sconvolgenti fino ad arrivare ad affermare che la Morte non avrà l’ultima parola. Gli uomini che gli hanno creduto e coloro che gli credono anche oggi non sempre sono stati e possono essere compiutamente all’altezza di quella testimonianza (scontano la loro fragilità e il loro limite al pari di tutti gli altri).
Di questo mondo è la possibilità di amare gli altri, cosa non sempre facile, anzi, diciamocelo, a volte al limite dell’umano (ed in certi casi già non dare seguito concretamente al proprio odio a causa del male subito, è già una nobile forma di amore); la speranza è che di tutto questo amore che abbiamo sperimentato nel darlo e nel riceverlo (negli infiniti modi in cui l’amore si esprime a partire da una carezza, da un sorriso), nulla vada perduto perché i destinatari sono stati essere umani in carne ed ossa. Possibile che tutto questo venga annientato dentro quattro assi di legno? La promessa di Resurrezione, me la immagino, come quella sensazione di gioia piena che ho spesso provato nell’abbracciare chi ho voluto bene e voglio bene, nella felicità di una bella notizia, la volta in cui sono diventato padre, in cui ho sperimentato la presenza incoraggiante di un amico, ed in mille altre situazioni. E per questo che, nonostante alcune cose mi siano incomprensibili, ancora credo nelle parole del Nazzareno.
*psicoterapeuta