Un libro schioppettante e imprescindibile, scritto in prima persona con la lingua gergale e dialettale propria dal protagonista-narratore, tal Bonfiglio Liborio, abruzzese, “cocciamatte” al suo paese, lo scemo del villaggio per dirla in fin dei conti facile facile, eppure così ingenuo e candido da farci amare la sua tristezza interiore, i suoi bisogni di tenerezza e di carezze, la sua mitezza e la sua pazienza, a ricasco del mondo.
Ignora chi mai fosse stato il papà suo, Liborio, e lo ricorda negli accenni che la mamma gli racconta, e lui lo vive dentro gli occhi uguali a quelli di suo padre che non vedranno mai, chissà dove sarà lontano e chissà mai perché. Ed ha paura del vento, Liborio, e lo mansueta con le pietre che nasconde nelle tasche del cappotto suo, per non volare via nell’aria. Solo, solitario e lontano, vive Liborio nella speranza di una vicinanza, di uno sguardo diretto al suo cuore, vive di un’aspettativa d’amore l’intera vita sua fatta di assenze, e di speranze di colmarne i vuoti.
S’appiglia allora al suo maestro elementare Cianfarra Romeo che lo elogiava per i numeri ed i conti, veloce e bravo il mio Libo’, che lui, Liborio, sempre i cognomi mette prima nel racconto, come di buon mattino si fa l’appello a scuola e si incomincia per la “A” di Amendola, Andreacchio e via nell’ordine alfabetico il registro.
Giordani Teresa è il primo amore di Liborio, manco d’un bacio e solo d’illusione, un primo amore andato invece in sposa a un ricco e rozzo paesano suo, un primo amore solo sfiorato e svaporato in una nostalgia del non è stato, e che peccato!, e quanti figli, e che signora poi sarebbe stata Giordani Teresa abbracciata tutta la vita al suo Liborio!
Via, via da Giordani Teresa e via dal suo paese, inizia il suo viandare per l’Italia e la sua storia, Liborio, servizio militare, lavoro, emigrazione, fabbriche, politica, tutta la storia d’Italia è la sua storia e s’accontenta di avere i soldi a stento per viverla e mangiarla a pranzo e a cena messi in fila a volte, e che vuoi di più dalla vita!
Saprà anche il carcere, Liborio, e il manicomio pure, ma sempre col sorriso sulle labbra v’entrava e s’usciva, con la melanconia nel cuore e la speranza dentro gli occhi d’un mondo più buono. Bonfiglio Liborio è una persona pura, essenziale, senza fronzoli. È una persona strana agli occhi del mondo, e il mondo lo mette al lato e lo respinge, lui che invece nel mondo cerca di entrarci e di viverci a tutti i costi.
È felliniano il finale, con Liborio che sogna la grande festa del trapasso, cui tutti le persone della sua vita sono invitate, danzanti ed eteree, impalpabili ma reali nella sua capoccia, un dipartire rassegnato e appagato, consapevole del proprio essere stato un uomo che ha vissuto la sofferenza e l’incomprensione, i lampi di gioia accecanti per gli scampoli d’affetto tentato e i rivoli di sangue versato.
Remo Rapino, professore di Filosofia di Lanciano è l’ottimo autore di cotanto libro, premiato con un Campiello azzeccato e meritato. Può essere un bel libro da leggere nella calura d’estate, nelle torride notti insonni di stelle cui si più indotti a veleggiare verso altri approdi, un pochino distanti dal quotidiano, routinario andare per le strade nostre di Monteverde.